Ripercorriamo tutte le tappe che hanno portato le donne al voto in Italia: dal finire dell’Ottocento al 1946.
Quella per il voto alle donne è stata una battaglia lunga: parliamo di un diritto che il gentil sesso ha conquistato soltanto grazie alla tenacia di alcuni personaggi, sia uomini che donne, che hanno contribuito a scrivere la storia del Belpaese. La prima volta è stata nel 1946: vediamo tutte le tappe che hanno portato a quella storica giornata, raccontata anche nel film di Paola Cortellesi “C’è ancora domani”.
Italia, le donne e il diritto al voto: una lunga battaglia
Sul finire dell’Ottocento, la donna era soggetta al principio della “incapacità giuridica” e, grazie al Codice Pisanelli (1865), sottoposta alla tutela del marito. Non solo, con l’enciclica Rerum Novarum (1891) di Papa Leone XIII si sottolineava la sua totale inclinazione ai lavori domestici e all’educazione dei figli. In sostanza, il gentil sesso era “fatto da natura” per pulire casa e sfornare eredi. All’epoca, un loro eventuale accesso al voto era più lontano che mai.
Il primo timido passo pro-suffragio è datato 1906, quando una ventina di donne – tra cui la grandissima pedagogista Maria Montessori e la pioniera del movimento emancipazionista italiano Anna Maria Mozzoni – firmarono una petizione. Pur avendo creato un certo scalpore, questa richiesta venne bocciata perché il voto femminile non sarebbe stato altro che una riproduzione di quello maschile. Come a sottolineare che il gentil sesso non avrebbe mai potuto avere un proprio pensiero.
A distanza di qualche anno, precisamente nel 1912, un gruppo di deputati socialisti provò a far approvare il voto femminile durante una progetto della riforma elettorale. Visto che si stava discutendo di ammettere alle urne gli uomini analfabeti, perché non accettare anche le donne? Anche in questo caso, la richiesta venne respinta. Nel 1919, grazie all’appoggio del Partito Popolare di Don Luigi Sturzo, il suffragio femminile venne approvato, ma il Parlamento si sciolse prima dell’approdo in senato. Ergo: un ennesimo nulla di fatto.
Italia, suffragio femminile: da Mussolini a oggi
Con l’avvento al potere di Benito Mussolini si tornò a discutere del diritto di voto alle donne. Il Duce era d’accordo, ma solo in alcuni casi. Potevano accedere alle urne soltanto alcune ‘categorie’: decorate, madri dei caduti, coloro che esercitavano la patria potestà , donzelle in possesso di un diploma di scuola elementare con capacità di leggere e scrivere e contribuenti di tasse comunali pari ad almeno 40 lire. In realtà , tutto ciò non avvenne mai perché il gentil sesso venne sempre più rilegato tra le mura domestiche, così come avveniva sul finire dell’Ottocento.
Con la guerra e la Resistenza cambiarono molte cose. Intorno al 1943 iniziarono a nascere diverse organizzazioni femministe, come i Gruppi di difesa della donna, l’Unione donne italiane (UDI) e il CIF, e nel 1944 venne creato un Comitato pro-voto. Questo portò, l’1 febbraio 1945, al decreto legislativo luogotenenziale n. 23 firmato dal Governo Bonomi, che stabiliva l’accesso al voto di tutte le donne, tranne le prostitute clandestine, ossia coloro che lavoravano fuori dalle case chiuse.
Le donne arrivarono così al voto, prima alle amministrative della primavera del 1946, poi alle politiche del 2 giugno 1946. A queste ultime parteciparono oltre 12 milioni di donzelle in tutta Italia, vestite per l’occasione come se dovessero presenziare ad una festa reale. “Centinaia di donne sono cadute perché non risorga il fascismo perché non ritorni la guerra per dare una vita migliore alle famiglie italiane. Continuiamo la loro lotta! Votiamo!“: questo lo slogan con cui l’UDI invitava le femmine alle urne.
L’ultimo importante passo è datato 10 marzo 1946, quando il decreto n.74 ha stabilito che anche le donne potevano essere elette.